Fatti di quotidiana follia – Intervista alla Dott.ssa Liliana Dell’Osso
Quali sono i “fatti di quotidiana follia” che danno il titolo al suo nuovo saggio? C’è una storia dietro a questo libro, un mio impegno che potrei definire “quotidiano”, proprio come il mezzo di comunicazione
12 Dicembre 20191. Quali sono i “fatti di quotidiana follia” che danno il titolo al suo nuovo saggio?
C’è una storia dietro a questo libro, un mio impegno che potrei definire “quotidiano”, proprio come il mezzo di comunicazione. Da molti anni vengo spesso contattata per fornire la mia opinione a margine di fatti di cronaca. Con il passare del tempo, ho avuto occasione di esplicitare il punto di vista della disciplina che insegno, la psichiatria, su una ampia varietà di fatti di cronaca. Si tratta di vicende che non sembrano, ad un primo sguardo, immediatamente connesse con ciò di cui si discute in una clinica psichiatrica: si parla di cronaca nera e non di biomarker, di terrorismo e non di diagnosi psichiatrica, di fatti di costume e non di epidemiologia. Tuttavia, in molti di questi interventi, emerge come l’informazione scientifica possa fornire una chiave di lettura privilegiata. Ciò mi ha fatto riflettere su quello che ritengo essere uno degli imperativi morali dell’accademia, ovvero la divulgazione scientifica. Se ne fa poca, e talvolta si fa male. A compenso di tale mancanza, spero, i miei “Fatti” possano fornire un piccolo contributo.
2. Il termine “follia” rimanda troppo spesso a stereotipi, luoghi comuni e pregiudizi. In particolare quali?
La storia
della psichiatria ci insegna che, nell’immaginario collettivo, la follia ha
preso il posto della lebbra e di altri morbi infettivi, come manifestazione
dell’Altro inconciliabile con la vita sociale. Follia è qualcosa di abbastanza
corrosivo da suscitare una sensazione di “panico morale” ancora oggi. La follia
sarebbe la negazione di quei principi che reggono non soltanto la nostra
maniera di vivere assieme (basata sulla responsabilità individuale e su una
serie di “contratti” reciproci) ma anche il nostro modo di intenderci come
esseri individuali.
C’è un discorso informale – che l’antropologia medica potrebbe forse individuare
con precisione –sulla follia che crea una sorta di “mitologia”, molto imprecisa
e, purtroppo, spesso fortemente stigmatizzante nei confronti dei pazienti. Se
potessimo analizzare lo stigma con precisione, vi troveremmo una base di paure
antiche, ancestrali; e tutta una serie di informazioni parascientifiche, mal
analizzate e fuori contesto. Alla base dello stigma psichiatrico, infine, c’è
la paura del diverso; e un diffuso sospetto nei confronti delle situazioni di
difficoltà, di marginalità, di sofferenza, spesso non riconosciuta o male
interpretata. La patologia mentale è però, sotto ogni punto di vista, in tutto
e per tutto una patologia “medica”. E come tale, per fortuna, si può (e si
deve!) curare.
3. Quale valore aggiunto può portare un punto di vista scientifico? Si può uscire più consapevoli dalla lettura di questo volume?
Si pensa talvolta che la scienza (o sotto altri punti di vista, la razionalità) siano un contenuto. Si apprende la scienza (nella forma immaginaria di un grosso e noioso manuale) e si ignora tutto il resto, pensando che questo possesso possa garantire la felicità nella vita pratica di tutti i giorni. Magari fosse così! La scienza non è un contenuto, è soprattutto un metodo. Nel volume si forniscono, sì, alcune nozioni scientifiche. Ma la psichiatria (come d’altronde tutte le scienze biomediche) è in continua evoluzione: ed i contenuti vanno incontro a rapida obsolescenza. Quello che non cambia, è l’approccio, ripeto il metodo.
E soprattutto questo metodo, questo modo di “leggere” i fatti ed i fenomeni che ci circondano che avevo intenzione di mostrare al lettore. Senza la pretesa di fare un corso semplificato in discipline specialistiche, ma insegnando a coadiuvare il buonsenso con un approccio che tenga conto della biologia, della farmacologia, della genetica e della psichiatria contemporanea. In tutta onestà, penso che sia un approccio produttivo: se non fossi convinta che il metodo scientifico abbia validità per la risoluzione dei problemi oltre l’ambito clinico, non lo applicherei.
4. Tocca il tema attualissimo della follia della Rete. Quali sono gli aspetti più preoccupanti? E cosa suggerisce, da Psichiatra, per uscire dalla sua trappola?
Il web: ecco qualcosa che è sempre stato guardato con sospetto, quasi che celasse il Male con la maiuscola. Eppure, a ben vedere, non si tratta che di uno strumento. Le apparecchiature informatiche sono solo un metodo per trasmettere informazioni: a determinarne il valore è l’impiego che se ne fa. Fa bene parlare di fenomeni come il cyber-stalking o il grooming. Bisogna sapere che Internet può essere luogo e strumento per comportamenti illegali, intrusivi e violenti. Non lo è in quanto tale, però, ma come macchina (“cieca e sorda”) nelle mani di individui che per convenienza o psicopatia mettono in atto un comportamento illecito. E non è la sua presenza a “favorirlo” o a trasformare un chierichetto in un demone: tant’è che molti dei comportamenti illeciti in questione affondano le proprie radici in pratiche “analogiche”. Bisogna innanzi tutto conoscere bene la natura dello strumento, per impedire che si verifichino impieghi scorretti e cercare di porre rimedio allorquando avvengono. Ma soprattutto, e molti casi mi sembra che lo suggeriscano, solo correttamente intendendo le possibilità implicite nel nuovo mondo digitale si possono prevenire i problemi che insorgono a causa di un uso ingenuo di queste nuove tecnologie.
5. Pur passando in rassegna fatti di cronaca sconvolgenti e allarmanti chiude il suo libro con l’elogio della speranza. Che cosa possiamo sperare?
Ciascuno può sperare quel che vuole; io suggerirei però che dovremmo proprio sperare il meglio. Chiariamoci però: non sottoscrivo l’ottimistica passività messa in mostra da Voltaire, secondo il quale “viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Dobbiamo però sperare che i problemi e le sfide del mondo contemporaneo possono essere superati, e che è precisamente la nostra responsabilità pervenire a tale risultato. Dobbiamo sperare in un mondo migliore: più giusto, più equo, più sicuro, e così facendo individuare le criticità su cui lavorare per ottenerlo. I fatti di cronaca non ci devono offendere o scandalizzare: devono indicarci le prossime direzioni di lavoro, segnalare questioni da risolvere.
6. La sua passione per il cinema la porta a dedicare pagine dense di riflessioni su alcuni film usciti negli ultimi anni. Mentre vedeva la luce il suo libro non era ancora uscito il clamoroso successo di Todd Phillips, “Joker”, il racconto di una follia contagiosa che non fa distinguere il bene dal male e cosa è reale e cosa immaginato… Può regalarci due parole adesso?
Joker è un film sulla diversità e sull’“innocenza” della follia. Il film ci illustra il lato umano di un personaggio da sempre descritto come un “mostro”. I mostri, infatti, esistono soltanto nei fumetti: nel nostro quotidiano ci sono gli esseri umani, e considerare uno di loro alla stregua di un’entità aliena ed ontologicamente malvagia è una semplificazione, terribile ed erronea.
Arthur Fleck perde l’assistenza psichiatrica (incluso l’accesso alla terapia farmacologica, di cui afferma egli stesso di sentire il bisogno), per “riduzione di fondi”. Viene inoltre percosso da una gang di bulli che aveva inseguito in un vicolo per riprendersi il cartello di un negozio per il quale stava facendo advertising. Inutili i tentativi di chiarimenti con il suo capo: viene licenziato.
Inizia per Arthur Fleck una discesa nell’inferno della patologia mentale: lentamente con l’aumentare dei sintomi dissociativi e psicotici emergono quelle caratteristiche che permettono di riconoscere il personaggio di Joker, l’“uomo che ride”, reso immortale negli albi della DC Comics. Il suono gracchiante della risata di Fleck ci accompagna nella pellicola, punteggiando le varie disavventure di cui il protagonista è vittima. Tra le altre cose, nella licenza della narrazione, ci viene raccontato come parte del suo quadro psicopatologico che, quando preda di angoscia e sofferenza, invece di piangere, si trovi a ridere compulsivamente senza riuscire a smettere. Prima del mostro c’è l’uomo, e quello che sembra inspiegabile si rivela nell’anamnesi come una patologia mentale. D’altronde, i segni ci sono tutti. La condizione di Arthur Fleck vede innanzi tutto una componente di vulnerabilità individuale. Interviene poi il trauma, sin dall’età infantile (con l’adozione da parte di una madre affetta da un grave disturbo psicotico, che lo abbandonava alle percosse dei suoi amanti), poi ripetuto in molte occasione durante l’età adulta. La diagnosi certamente tardiva e il parziale accesso ai trattamenti, che vengono poi peraltro interrotti, completano il quadro. Il feroce “mostro” non è che un paziente cronico, di cui la società (in ultima analisi, “per taglio di fondi”) non vuole e non può prendersi cura. In un contesto diverso, la tragedia avrebbe potuto essere evitata, e Arthur avrebbe potuto essere messo in grado di tenere sotto controllo la sua patologia e vivere una vita soddisfacente. In ultima analisi, se ne conosce la storia, il Joker è innocente: siamo noi, come membri della società civile, a doverci chiedere se davvero si stia facendo il possibile per coloro che vivono una condizione di fragilità: è questa la metafora più scoperta nel gioco di rimandi che la pellicola propone. E nonostante, ci teniamo a sottolinearlo, solo una minima parte dei pazienti psichiatrici, quando non trattati, possono mostrare agiti etero-aggressivi come nel caso di Arthur, invariabilmente il mancato accesso a cure adeguate provoca una grave compromissione del funzionamento e del benessere individuale, condannando il soggetto a uno stato di sofferenza che potrebbe essere evitato.
Quando, alla fine, il volto di Arthur si trasfigura nella maschera di Joker, non si rappresenta la nascita di un “mostro”. Al contrario, si assiste alla tragica fine della storia di vita di un uomo solo e disperato, all’esito irreversibile di un percorso psicopatologico che poteva (e doveva!) essere interrotto. E nella sua risata adesso sappiamo che echeggia non tanto il male, quanto il dolore di un’esistenza mancata.
Note sull'Autrice
È direttore della Clinica Psichiatrica e della Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’Università di Pisa e presidente del Collegio Nazionale dei Professori Ordinari di Psichiatria. È membro della Top Italian Scientists che riunisce gli scienziati italiani ad alto impact factor, della Top Italian Women Scientists e del club 100esperte.it. È autrice o coautrice di oltre 800 pubblicazioni su riviste scientifiche prevalentemente internazionali e di saggi. Per Giunti è autrice di Il caso Coco Chanel. L’insopportabile genio (Giunti, 2018).
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